Le ripercussioni del Covid-19 nel Golfo persico e in Medio Oriente

L’attuale pandemia provocata dalla diffusione del Covid-19 ha avuto molteplici effetti su diversi fronti – sanitario e sociale in modo particolare, ma anche economico – che hanno a loro volta portato a diversi shock sul piano dell’economia e della politica globale e, verosimilmente, ne causeranno a breve di nuovi.

Tra le aree che rischiano di dover fronteggiare dei profondi cambiamenti a causa dell’epidemia figura anche il Medio Oriente e in modo particolare i Paesi del Golfo. La regione, in verità, rispetto ad altre parti del mondo, appare relativamente poco colpita dalla pandemia. Secondo i dati raccolti dal Middle East Business Intelligence, al 19 di maggio, i casi per l’intero Medio Oriente ammontano a 309.528 – un numero molto basso rispetto ai quasi 2 milioni dell’Europa. Questo dato generale nasconde tuttavia notevoli differenze in termini di distribuzione. Solamente i casi di contagio in Iran, infatti, alla stessa data ammontano a 124.603 – il 40% del totale – mentre i Paesi membri del Consiglio di cooperazione del Golfo (Arabia Saudita, Kuwait, Qatar, Bahrain, Emirati arabi uniti e Oman) presentano nel complesso 150.490 casi (di cui 59.854 in Arabia Saudita) ossia il 48% del totale dei casi nella regione. Ciò comporta che i paesi del Golfo nel loro insieme rappresentano l’88% dei casi confermati di Covid-19 dell’intero Medio Oriente.

Dubai, Emirati arabi uniti.
Fonte: Wikimedia Commons.

Questa netta differenza fra il Golfo e il resto della regione può trovare diverse spiegazioni, tra cui il ruolo di hub commerciale e finanziario dei paesi dell’area e il fatto che – soprattutto nella sponda sud del Golfo – la popolazione si concentra prevalentemente in agglomerati urbani relativamente grandi e ad alta densità abitativa. Ciononostante, si tratta comunque di numeri al di sotto della media di diverse altre regioni, in primis Europa e Stati Uniti. Il Covid-19 rischia comunque di avere conseguenze molto serie per l’area, a causa delle ripercussioni economiche derivanti dalla pandemia. Negli ultimi mesi, infatti, a causa del calo dell’attività economica a livello globale, il prezzo di diverse materie prime è crollato, e questa dinamica ha interessato in particolare il petrolio, una risorsa che ha subito un forte calo della domanda. Tra gennaio e aprile, il prezzo di petrolio è passato da 60 a 20 dollari al barile. Sulla base di questi numeri, il Fondo monetario internazionale ha previsto una diminuzione del Pil dei paesi del Medio Oriente e del Nord Africa esportatori di risorse energetiche del 4,2% nel 2020, e del 2,7% fra i paesi membri del Consiglio. L’Iran per parte sua, deve fronteggiare non solo l’alto numero di contagi e le infelici previsioni già citate, ma anche il sempre più aspro regime di sanzioni imposto dagli USA – anche se c’è da notare che, paradossalmente, il prolungato isolamento dall’economia globale rende l’Iran in qualche modo meno esposto agli shock economici internazionali.

L’impatto economico della pandemia ha invece generato diverse reazioni e provvedimenti da parte dei paesi arabi del Golfo, le cui economie sono estremamente sensibili alle variazioni e agli shock del sistema economico globale. L’Arabia saudita, ad esempio, ha emesso un pacchetto di misure del valore di ben 120 miliardi di dollari in supporto al settore privato – 50 per finanziare le piccole e medie imprese –, mentre gli Emirati hanno sviluppato un piano di ripresa in due fasi, comprendente uno stimolo di 76 miliardi di dollari e un focus sulle imprese ad alto potenziale nel lungo periodo – principalmente nei settori dell’intelligenza artificiale, del 5G e del Blockchain. Tutti questi provvedimenti sono volti a contrastare lo shock causato dall’abbassamento del prezzo del petrolio, una risorsa da cui questi paesi, malgrado i tentativi di diversificazione economica portati avanti negli ultimi anni, restano fortemente dipendenti.

A partire dalla seconda metà di maggio, un cauto ottimismo relativamente a questa crisi sembra aver preso piede nella regione. È infatti evidente che il prezzo del petrolio sia progressivamente cresciuto grazie alla graduale ripartenza economica di diversi mercati, primo fra tutti quello cinese. Tuttavia sopravvalutare questo fenomeno potrebbe essere rischioso, essenzialmente per due ragioni. La prima, di breve periodo, è legata alla banale constatazione che il prezzo è sì risalito a circa 30$ al barile, ma questa resta una cifra pari al 50% del valore pre-crisi – anche se la compagnia nazionale petrolifera nazionale saudita Aramco, ad esempio, ha recuperato la quota di mercato precedente al calo dei prezzi. Per una serie di ragioni è ancora presto per poter dire che il mercato del greggio ha superato la fase peggiore, fra queste si possono citare il fatto che non è esclusa una seconda ondata pandemica, la constatazione che l’aumento del prezzo di metà maggio è in parte dovuto alle notizie relative alla politiche saudite di taglio alla produzione, in ottemperanza con quanto suggerito dall’Opec, e il taglio alla produzione condotto da diverse compagnie petrolifere USA. Tutti elementi che possono portare ora a un aumento – peraltro non così marcato – del prezzo, ma che avranno effetti incerti sull’offerta nel lungo periodo.

Una raffineria di petrolio in Kuwait.
Fonte: Wikimedia Commons.

Tuttavia, se anche l’ottimismo più sfrenato dovesse rivelarsi corretto, vi sarebbe una seconda ragione per cui questa crisi rivestirebbe comunque un’importanza notevole per il Medio Oriente nel suo complesso, e non solo per il Golfo. Infatti, essa rimarca la ben nota dipendenza delle economie dei paesi membri del Consiglio di cooperazione del Golfo da un unica risorsa, gli idrocarburi. Le politiche di diversificazione economica in progetto o già avviate da parte di questi paesi non sono ancora state capaci di proteggere le economie del Golfo dalla loro cronica vulnerabilità agli shock esterni. Il Covid-19 è l’elemento scatenante attuale, ma già nel 2014 un effetto simile fu causato dalla ritrovata parziale autonomia energetica statunitense, a seguito della messa a punto delle tecniche di estrazione tramite fracking. In futuro, qualunque altro shock potrebbe evidenziare di nuovo le vulnerabilità delle monarchie del Golfo.

Un processo di vera diversificazione economica è dunque necessario, malgrado ciò possa comportare modifiche al contratto sociale di questi paesi, caratterizzato finora da un livello di rappresentanza decisamente basso. Questa urgenza è stata dimostrata dalla necessità di introdurre l’Iva fra le monarchie del Golfo proprio in seguito alla crisi del 2014. È probabile che anche l’attuale crisi costringerà a ulteriori “normalizzazioni”, almeno in ambito economico, se non politico. Bisogna infine notare che crisi del genere non colpiscono solo le economie del Golfo, ma anche – anzi, maggiormente – le altre economie del mondo arabo dipendenti da quest’area. L’Egitto, ad esempio, riesce a sostenersi economicamente nonostante il crollo del turismo quasi solo grazie al sostegno economico saudita. Un sostegno che, verosimilmente, andrà sicuramente incontro a una riduzione, con conseguenze difficilmente prevedibili o controllabili, soprattutto se consideriamo che nella stessa situazione quasi tutti gli altri paesi non produttori di petrolio della regione si trovano nella stessa situazione.

Francesco Felle